Amministrative 2016
Pochi giorni ancora, e un significativo numero di amministrazioni locali sarà rinnovato con rappresentanti scelti dai cittadini. Qualcosa però è cambiato dall’ultima consultazione, perché mentre in occasione delle elezione del 2013 – politiche quella volta – gli amici mi fermavano chiedendo «Sei candidato? Se ti candidi voto te!», adesso mi fermano dicendo «Sono candidato, vota me!». Dopo tre anni c’è molta più determinazione ad agire e mettersi in gioco in prima persona. La confusione però sembra uguale.
Il mio obbiettivo non è fornire indicazioni di voto, ma riflettere sullo scenario politico e prendere in esame alcuni aspetti delle dinamiche, in particolare elettorali, che mi sembra importante non trascurare in vista di un appuntamento alle urne. Se alla fine della lettura risultasse evidente cosa voterei io non sarà un contravvenire al proposito esposto, ma esprimendo le proprie idee capita di rivelarle.
Assunto di partenza di questa riflessione è che il momento presente sia grave, che richieda di agire in qualche modo e che restare a guardare per vedere cosa succederà sia in qualche modo una scelta irresponsabile, se non colpevole.
La seconda premessa importante, forse scontata nella sua ovvietà, ma che voglio richiamare ugualmente, è che non tutti sono candidabili e ancor meno risultano eletti al termine delle operazioni di spoglio dei voti. Questo significa che un comportamento civilmente responsabile, dal punto di vista politico, nella maggior parte dei casi consisterà nel valutare coscienziosamente quale sia il partito e il candidato migliore per farsi rappresentare, spesso nell’impegnarsi in attività con dichiarati risvolti sociopolitici e in alcuni casi servire la collettività nelle cariche istituzionali. Per semplificare, con quella che è chiaramente una esagerazione, è evidente che se su una popolazione di un milione di elettori ho un milione di candidati, da qualche parte qualcosa non funziona.
Ciò detto, la prima cosa che salta all’occhio è che questi numerosi amici candidati alle prossime amministrative sono sparpagliati in pressoché tutti gli schieramenti – forse manca all’appello il PD, ma non ne sono sicuro. Stante l’affinità di valori che li accomuna, è già un indizio significativo di come la volontà di fare e lo spirito di iniziativa abbiano alimentato anche una certa confusione. Ma indica anche un’altra cosa: i valori di fede e famiglia e la tutela della vita non sono sufficienti, di per sé, a delineare le caratteristiche di un partito.
Questa pluralità di percorsi personali nei diversi aggregati politici non rappresenta un male in sé, ma bisogna fare i conti col fatto che oggi non basta più avere buone idee e saldi principi, pensando che poi, con pazienza, si può lavorare per cambiare le cose da dentro (sottinteso: un contesto ostile); neppure vale più la strategia di cercare almeno un consenso modesto per trovare posto in una coalizione e fare poi l’ago della bilancia nei momenti cruciali. Una strategia di ingresso nello scacchiere politico dovrebbe mirare a una rappresentanza solida, ampia e condivisa a livello di programma, non di convinzioni personali. Esaminiamo questi aspetti più in dettaglio:
Le convinzioni personali sono inutili se il partito manca di identità (oggi come oggi fantascienza) o almeno di un obbiettivo programmatico (opzione B che resta comunque un mirare alto). Una volta si diceva che è importante individuare qualche buon candidato e puntare sulle persone perché sono le persone che fanno la differenza. Che siano le persone a fare la differenza è fuori discussione, ma in politica il battitore libero non è un fuoriclasse, ma solo uno sciocco che fa danni!
Provo a spiegarmi con un esempio: nelle elezioni democratiche ci sono dei partiti che si mettono in competizione e la vittoria è rappresentata dalla conquista di un numero di seggi maggiore di quello ottenuto dagli avversari; il numero di seggi conquistati è proporzionale, anche se non in modo lineare, al numero di voti ottenuti. Per decidere quali persone occuperanno i seggi conquistati, rappresentando i cittadini, il partito prepara una lista di candidati; i candidati di una lista risultano eletti in base ai voti di preferenza ricevuti, partendo dal più votato, e in numero pari al numero di seggi ottenuti dal partito della lista in cui si sono candidati. A meno di differenze marginali dovute a regole di calcolo dei seggi che cambiano a seconda del tipo di elezione, possiamo dire che quando l’elettore esprime la preferenza per un candidato vota anche sempre per il partito che lo ha messo in lista; sembra una ovvietà, ma ha una conseguenza che non sempre si considera: un candidato potrebbe – e di fatto avviene per buona parte dei candidati eletti – ottenere molti più voti del minimo che gli serve per essere eletto. I voti in più ovviamente non gli servono se non per la legittima soddisfazione di essere popolare; quei voti in più servono invece al partito per guadagnare altri seggi e fare eleggere altri candidati che hanno ottenuto meno voti e che, senza il successo del candidato più popolare, non sarebbero stati eletti.
Di fatto, un candidato popolare per le sue buone idee potrebbe ricevere dagli elettori tante preferenze da fare eleggere lui assieme ad altri candidati di idee completamente opposte. In questo modo gli elettori che hanno votato convinti di farsi rappresentare hanno invece eletto chi li danneggia. Questo esempio non è un esercizio speculativo ma una concreta possibilità; il solo modo per evitare che si verifichi (sottinteso: mantenendo un ordinamento democratico) è fare in modo che i candidati premiati grazie a chi riceve tanti voti sostengano valori, o almeno linee di azione, simili. La sola possibilità per garantirlo ragionevolmente è che questi valori e/o programmi siano quelli in cui il partito si identifica.
Detto in altre parole, solo se il mio candidato ha valori che fanno già parte del patrimonio culturale – o almeno programmatico – del partito con cui si presenta, posso votarlo sicuro che la mia preferenza non lo condannerà a un mandato sterile per l’ostracismo dei suoi (sottinteso: sprecando il mio voto).
Voler fare l’ago della bilancia è una strategia perdente (sottinteso: se non interessano solo le poltrone). Nella storia della Repubblica ci sono stati dei periodi in cui partiti con una rappresentanza modesta hanno deciso per il Paese intero. Il meccanismo è semplice e facile da comprendere: se ci sono due grandi partiti che, per semplificare, immaginiamo posseggano entrambi il 45% dei seggi, uno di centrodestra e uno di centrosinistra, nessuno dei due può governare senza un’alleanza; in queste condizioni un partito che rappresenta solo il 6% è in grado non solo di decidere chi governa ma anche quali leggi vadano approvate votando, all’occorrenza, con l’opposizione. Questa tecnica è ben nota e sftruttata anche nelle strategie di controllo dei consigli di amministrazione e dei pacchetti azionari delle società, ma trova applicazione in tutte quelle situazioni in cui si vota a maggioranza, le sole opzioni di voto sono a favore e contro (più eventualmente l’astensione) e i votanti possono formare alleanze.
Ma nello scenario politico contemporaneo, quello italiano per lo meno, non è più una strategia che paga; la maggioranza, e l’opposizione, non sono più coalizioni stabili. Qui non ci interessa tanto il motivo di ciò (causato, in estrema sintesi, dalla perdita di ogni identità politica), ma ci preme osservare che quel 45% dell’esempio di prima nella realtà oscilla continuamente e se un giorno diventa 55% il giorno successivo potrebbe essere 30%, così il partito che deteneva il 6% non è più in grado di rappresentare l’elemento chiave; oltretutto, con la frammentazione sempre più esasperata in partitelli e correnti sono i grandi partiti che riescono ad attrarre elementi chiave – per sé – per superare la soglia del 50% ribaltando la dinamica: è la maggioranza relativa che riesce a sfruttare più facilmente alleanze occasionali pescando nella miriade di soggetti politici minori.
Un esempio tratto dalla cronaca recente. I’NCD è nato da una scissione del maggiore (all’epoca) partito di centrodestra, e alle ultime elezioni ha raccolto un certo consenso che ha sfruttato per governare con il PD, così nel 2013 gli italiani di centrodestra hanno eletto 50 (cinquanta!) deputati e senatori nel centrosinistra. Una fluidità identitaria degna della miglior Gender Theory, che neppure la storica Democrazia Cristiana, nonostante le convergenze parallele e altri mostri, sarebbe riuscita a concepire. Esemplare poi di come i piccoli partiti non possano più sperare di fare l’ago della bilancia è quanto avvenuto nell’iter di approvazione del DDL Cirinnà in Senato: prima di porre la fiducia per chiudere la questione, il PD ha fronteggiato il defilamento di alcuni alleati stringendo altre alleanze al volo con la massima facilità, proprio perché il “vivaio” da cui pescare è pieno di soggetti che vogliono emergere.
A questo punto della riflessione, è chiaro che nello scenario partitico attuale se si vuole almeno tamponare l’emergenza antropologica – gender, famiglia e primato educativo – un buon numero di partiti si eliminano da soli.
Il PD è immediatamente squalificato perché nemico dichiarato della famiglia e dei diritti dei bambini. Stesso giudizio per gli altri partiti del centrosinistra, che nella generale crisi di identità politica si sentono in dovere ogni tanto di fare qualcosa di sinistra per riconoscersi e tranquillizzarsi, ma oggi “di sinistra” significa matri(poli)monio omosessuale, utero in affitto, adozioni gay, eutanasia e simili; insomma cose assurde o criminali a seconda dei casi. Singolare ed emblematico in merito, il fatto che anche Democrazia Solidale al Senato abbia votato compatta in favore della Cirinnà, quando nel suo manifesto si propone di portare un contributo che si rifà in primo luogo a «un impegno politico ispirato dal cattolicesimo democratico» (corsivo mio).
Sul fronte del centrodestra mi sembra che Alfano (NCD) abbia deciso di suicidarsi politicamente, sostenendo apertamente e vergognosamente Renzi con le sue velleità dittatoriali e i temi che fanno sinistra. Berlusconi (PDL) aprendo alla compagine LGBT pare che invece abbia optato per l’eutanasia da parte degli elettori (quanto rapida lo scopriremo alle urne).
Alcune frange di NCD, partito rimasto di fatto acefalo, localmente hanno dato origine a liste civiche, presumibilmente per evitare di presentarsi agli elettori con sigle imbarazzanti, forse cogliendo anche l’occasione per cercare di emergere localmente, ma perdendo ogni significanza per il Paese, mentre altre hanno costituito il movimento politico IDEA che vuole evitare lo stesso imbarazzo e sfruttare le prossime amministrative per capire come salvare il salvabile del centrodestra, in questo caso su scala nazionale. Partiti come Fratelli d’Italia poi, nonostante sostengano convintamente la famiglia e i valori delle radici cristiane, sono generalmente percepiti in posizione troppo estrema dello schieramento per poter colmare in modo significativo il vuoto della destra.
Paradossalmente, resta la Lega Nord a rappresentare l’elemento moderato del centrodestra e a spendersi concretamente per la famiglia. Messo da parte lo stile rozzo e ostentato del ce l’ha dur-ismo e gli slogan secessionisti, negli ultimi anni è il solo partito che si è speso sistematicamente per difendere la famiglia e l’identità culturale cristiana dell’Italia. Anche in altri partiti si distinguono figure esemplari che si battono come leoni per la famiglia, ma non sono voce e identità del partito in cui militano; nella Lega invece, anche nei casi in cui l’individuo sarebbe personalmente poco attento agli attacchi contro la famiglia questi la difende comunque, perché è valore del partito stesso, almeno fino a che famiglia, tradizioni e territorio resteranno i punti di riferimento attorno ai quali la Lega costruisce le sue politiche.
Per completare la panoramica resta da dire qualche parola sul Popolo della Famiglia, nato apolide non piazzandosi, per ora, né nel centrodestra né nel centrosinistra. E’ vero che ispirarsi a valori e difenderli è una azione che dovrebbe venire prima dello schierarsi, ma se questo nuovo soggetto politico rappresenti il desiderio – per ora manifestato e prossimamente da realizzare – di una nuova coscienza politica o piuttosto non risenta solo della crisi di identità della politica è presto per dirlo. L’entusiasmo della base è vento di novità, ma la strada da fare è lunga perché la realtà attuale con le sue strutture, passato lo scoglio delle amministrative, costringerà a scegliere tra destra e sinistra. Se guardo i numerosi amici che militano nel PdF e alcune alleanze formatesi, direi che c’è una spiccata simpatia per il centrodestra; ma conosco direttamente per lo più Milano e poco altro, e Adinolfi non fa certo mistero di essere un uomo dichiaratamente di sinistra. A mio avviso, la vera sfida per il PdF non sono le amministrative, ma trovare successivamente un assetto e una identità che non li mandi in pezzi. Alcuni, vista l’importanza che il Cristianesimo dà alla famiglia, il richiamo del PdF alla Dottrina Sociale della Chiesa e l’alto numero di credenti tra le sue fila, crede di vederci l’auspicata nascita di un partito finalmente cristiano. Non vedo nulla di auspicabile in un partito cristiano, e se qualcuno ha assistito a una discussione di politica tra credenti si sarà convinto che se qualcosa li unisce non è certo la politica.
Per quel che riguarda le imminenti elezioni, i molti aderenti del PdF che conosco personalmente meritano che si scommetta su di loro. Ma va anche detto che se è questo il momento di far sentire la voce in merito ai grandi eventi in corso (unioni civili, utero in affitto, eutanasia, ecc.), per ora il peso del Pdf è quasi nullo e dopo il voto continuerà in ogni caso a non essere rappresentato in Parlamento, per cui non è chiaro quali messaggi potrebbe sperare di mandare. Ma il principio per cui si valutano le azioni e non le intenzioni vale a maggior ragione per la politica, bisogna quindi dare al PdF tempo per agire, prima di potersene fare un’idea precisa.
In ultimo, al di là di ogni propaganda e demagogia, deputati e senatori dimostrano di rappresentare il popolo e non sé stessi con il voto che esprimono sulle leggi in aula, e un elettore può dire hai fatto bene solo col voto nell’urna. Per questo motivo, in questo grave momento, userei il mio voto per dire grazie a chi ha combattuto.